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Il professore di Harvard Roger Fisher propose di costringere i Presidenti a pugnalare un uomo prima di poter lanciare armi nucleari

Il professore di legge di Harvard Roger Fisher ha suggerito un'idea interessante per un deterrente nucleare. Ha suggerito che i codici di lancio dovrebbero esseri inseriti in una piccola capsula, che verrebbe poi impiantata accanto al cuore di un volontario. In questo modo, se il Presidente volesse mai lanciare armi nucleari, dovrebbe prima uccidere personalmente il volontario innocente prima di distruggere le vite di altre decine di milioni di innocenti.

Pubblicato il 01/04/2021

Nei primi anni '80, il professore di legge di Harvard Roger Fisher propose una nuova, macabra idea per "aiutare" le nazioni ad affrontare la decisione di lanciare un attacco nucleare. Tra le altre cose, riguardava un coltello da macellaio e un volontario disposto a rischiare di farsi pugnalare al petto.

Scrivendo sul Bulletin of Atomic Scientists, Fisher suggerì che i codici di lancio necessari a lanciare una bomba atomica non fossero contenuti in una valigetta, ma piuttosto in una piccola capsula inserita accanto al cuore di un volontario. Quella stessa persona avrebbe seguito il presidente ovunque egli andasse, portando con sé un pesante coltello. Per autorizzare il lancio di un missile, il comandante in capo avrebbe dovuto uccidere personalmente il volontario, scavando nel suo petto per recuperare la capsula.

Il professore di legge di Harvard Robert Fisher

Quando Fisher propose la sua idea ai suoi amici al Pentagono, questi rimasero inorriditi, e risposero che dover compiere questo atto avrebbe distorto il giudizio del presidente. Ma per Fisher, ovviamente, il punto era proprio quello. Prima di uccidere milioni di persone, il presidente avrebbe dovuto "guardare qualcuno in faccia e realizzare cosa è la morte – cosa è una morta innocente. Sangue sul tappeto della Casa Bianca".

Uccidere una persona con un coltello da macellaio è sicuramente un atto moralmente riprovevole. Ma in passato i leader hanno a tutti gli effetti distrutto la vita di un numero enorme di persone, giustificando i loro atti come necessità politica o militare. In seguito alle bombe nucleari su Hiroshima e Nagasaki, ad esempio, la decisione venne giustificata solo in base ai suoi esiti e non alla mortalità. Il bombardamento terminò la Seconda Guerra Mondiale, prevenendo ulteriori morti che sarebbero state causate da un protrarsi del conflitto.

Eppure, non si può ignorare che il 6 e il 9 agosto del 1945, due intere città piene di civili vennero annichilite dal terribile potere delle armi atomiche. Almeno 200.000 persone vennero uccise sul momento, e altre centinaia di migliaia uccise. I bombardamenti, inoltre, lasciarono dietro di sé una inquantificabile eredità di radiazioni, tumori e traumi. A questo punto, possiamo raccontare le storie individuali: quelle di madri e figli, di dottori e ingegneri, di vite ordinarie trasformate per sempre in un solo momento.

Negli ultimi anni, i ricercatori e i filosofi hanno esplorato la questione morale sollevata dalle armi nucleari. Può mai essere giustificato lanciare un attacco nucleare sui civili? In quali circostanze? Non ci sono risposte facili.

La neuroscienziata Rebecca Saxe ha affrontato i dilemmi morali portando il protocollo immaginato da Fisher come esempio per i suoi studenti, nelle lezioni di etica al Massachusetts Institute of Technology.

Saxe nota che se il presidente degli Stati Uniti fosse assolutamente convinto della logica utilitaristica del ridurre la quantità totale di sofferenza durante la guerra, allora non dovrebbe neanche esitare all'idea di strappare il cuore del volontario. D'altro, cosa è una sola altra vita innocente, se si è pronti ad uccidere decine di migliaia di persone per un bene superiore?

Forse il presidente userebbe il coltello, alla fine, ma come gli amici di Fisher al Pentagono hanno fatto notare, la terribile prossimità dell'atto lo porterebbe ad esitare. Uccidere una persona per prendere i codici avrebbe tutte le caratteristiche di un omicidio punibile con il massimo della pena: l'atto sarebbe premeditato, intenzionale, non per auto-difesa e strumentale (ovvero, userebbe una persona come mezzo per raggiungere un fine).

Gli psicologi che studiano la moralità parlano della schizzinosità avvertita all'idea di uccidere da vicino come di "avversione all'azione". Quando alle persone viene chiesto di immaginarsi in uno scenario che riguarda un'azione fisica ravvicinata, come pugnalare o uccidere, sono meno propense a supportare l'idea di uccidere per un bene superiore.

C'è ovviamente un altro lato della stessa medaglia. Quando le persone sono invece distaccate dalla realtà e dalla concretezza dell'atto, ci sono molti meno ostacoli mentali. "Scrivere il nome di qualcuno su un ordine di tortura o premere un bottone per rilasciare una bomba hanno conseguenze reali per altre persone. Ma queste azioni non hanno proprietà salienti che le associano alla sofferenza della vittima".

Una lontananza geografica (e temporale) dalle realtà umane di Hiroshima e Nagasaki, nel 1945, spiega come è stato possibile, per Truman, premere quel pulsante e condannare alla morte migliaia (probabilmente, tutto considerato, milioni) di persone. E spiega anche come mai la stragrande maggioranza degli americani supportavano la decisione di Truman.

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